L'atterraggio notturno all'aeroporto della città di Larnaca, a Cipro, me lo ricordo bene. Roba di alcuni mesi prima.
Ricordo di aver seguito dall'oblò la fuoriuscita di slat e spoilers, con il velivolo che si stabilizzava in lungo finale con piccoli aggiustamenti sul Localizer del locale ILS. Ricordo il mare, la costa frastagliata, le luci della città, bello da morire. Ricordo il contatto che mi è sembrato ben oltre la soglia pista e la frenata poderosa con i trust reverse, il rullaggio al parcheggio per una selva di raccordi lunghi eterni. Ricordo di aver annusato, pur senza poterlo sentire, l'odore del medio oriente. Ricordo l'autobotte e gli addetti al rifornimento che si muovevano con una flemma che ti ricorda di essere in medio oriente. E non a Francoforte o Stoccolma o Heatrow. In Medio Oriente.
Larnaca è una splendida portaerei nel mediterraneo orientale. La gente ci passa da quando l'uomo ha imparato ad andare in qua e in là per i mari. Come gli autogrill sull'appennino quando fai l'autostrada per andare a sud. Ma molto più bella e romantica e pulita, perfino.
Siamo restati tutti seduti ai posti assegnati, lo scalo tecnico è durato una mezz'oretta. Niente sigaretta. Sono l'unico, o quasi, passeggero in abiti civili, con infradito e jeans scolorati. Tutta la fila di sedili riservata per me. Pochi, pochissimi indizi rivelano chi sono e cosa faccio. Mi scrutano, specialmente i capoccioni. Non compaio sulle loro liste, lo so. Ma nessuno viene a chiedere spiegazioni. Vedono i plichi destinati all'ambasciata dai quali non mi separo nemmeno per andare a pisciare. Penseranno che io sia una barba finta, dell'Intelligence o dei Servizi. Intelligentemente mi lasciano in pace.
Decollo e dopo pochi minuti di volo compare la costa del Libano e le luci di Beirut, città martoriata.
Virata a destra sul mare, prua a sud.
In poco tempo compare in lontananza, sfocata nella foschia, Tel Aviv. Penso alla Siria, a Damasco, città dell'incanto, se mai la visiterò un giorno. Adesso no, non è consigliabile meta di turismo, non si può.
Poi Gerusalemme. La città dell'incontro. La città che tutti vogliono. La città che divide. L'epicentro delle religioni monoteiste. Preda da sbranare, simbolo irrinunciabile. Per la quale farsi uccidere. E uccidere. Tutti figli dello stesso Dio, tutti generati dai discendenti di Abramo e di Isacco. Prima gli ebrei, poi i cristiani di Gesù, poi i seguaci del Profeta Mohammed. Da migliaia di anni va avanti così, fra eterne battaglie intervallate da più o meno brevi silenzi di armi.
Silenzi in cui le pietre affilano le spade, meditando la vendetta nel crogiuolo dell'odio che ribolle e non si assopisce.
Nella ricerca ottusa, spasmodica e cieca delle radici delle proprie ragioni non si riesce a predire alcun domani.
Massima diffusa fra i piloti è quella per la quale quando devi atterrare, il tratto di pista che hai alle spalle non conta, conta il tratto che ti resta disponibile. Bella metafora, universale. Una giusta prospettiva per osservare le cose.
I pensieri mi impegnano, poi diventano rotondi e le immagini cortocircuitano mormidamente, e mi assopisco.
Quando riapro gli occhi, sotto l'aeroplano è tutto nero. Non capisco se siamo fra due strati di nubi.
Poi ci sono luci che tremolano, sparse nel nero denso.
E' il deserto. Sono pozzi petroliferi.
Sono le tre del mattino, ora locale, quando il portellone di prua dell' A320 si apre su un muro di aria bollente, umida e densa.
Scendo e cerco qualcuno della polizia militare, gente dei nostri, mollo alcuni plichi che devono raggiungere destinazione discretamente e chiedo consiglio per il carico prezioso e proibito stivato a metà del mio pesantissimo zaino.
Ci guardiamo negli occhi e decidiamo di tentare la strada più semplice: faccia da culo e dogana.
Mi mescolo ad altre persone e mi avvicino al desk dell'immigrazione. L'aerostazione è semivuota ma i poliziotti e i doganieri baffuti sono numerosi e aspettano al varco indolenti.
Ci sono anche le poliziotte con la divisa carta zucchero, i gradi da sergente, e lo chador. Tutte obese e tarchiate.
Il tizio dietro il vetro scruta il passaporto, ripassa tutte le pagine ad una ad una, controlla i visti e dove son andato girando, lentamente. Ripete l'operazione a ritroso.
Faccio il calmo, senza sorridere e senza mostrare nervosismo, controllo i gesti. Seguo la mia valigia e lo zaino che scompaiono e riappaiono dall'altro lato dello scatolone dell'ecografo. Il tizio al monitor getta occhiate distratte.
"Perchè fa visita al nostro paese?" mi chiede l'arabo senza sollevare lo sguardo. "Businnes and some tourism as well".
Rumore di timbro che lascia un'impronta rossa sul mio passaporto.
"Welcome in the U.A.E, God bless you".
Prima di guadagnare l'uscita mi fermano ancora due volte e mi ricontrollano i documenti. Sotto le palme c'è la Toyota bianca con cui mi sono venuti a prendere, Valigia nel bagagliaio e zaino sul sedile posteriore con me.
Solo al mattino, quando varco il metal detector dell'ambasciata italiana, tiro un sospiro di sollievo. Consegno il prosciutto crudo di S.Daniele (disossato per concedere meno impronta all'ecografo) all'amico del mio amico che ringrazia e mi porge il suo biglietto da visita, per qualsiasi casino mi dovesse accadere. E' un gesto prezioso.
Prosciutto crudo, merce proibita. Carne di porco, bestia immangiabile. L'importazione, ad uso degli occidentali, è concessa solo dopo una trafila che farebbe desistere anche i molto pazienti.
Importazione di merce proibita. Ho infranto una regola. Severa come tutte le regole, semplici peraltro, che regolano questa civiltà.
Tempo dopo, proveniente da Vienna, dopo aver fatto scalo in Qatar, mi hanno vivisezionato il bagaglio. Avevo solo una Sacher Torte. Vada pure.
Esco nel viale fiorito, nell'elegante e ordinato quartiere delle ambasciate, il traffico è assente, il cielo molto blu e non c'è anima viva.
E' venerdì. Giorno di festa e riposo.
E' la loro domenica.
Mi ci abituerò presto.
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